La Luna Argento

Dopo “La luna rossa” e “La luna bianca”, torna in libreria Lorenzo Sassoli De Bianchi con il terzo volume della trilogia “La Luna Argento”.

 

Se nel secondo volume “La luna bianca”, avevamo lasciato il mondo colpito da un’epidemia d’insonnia, nel terzo volume “La luna argento”, Lorenzo Sassoli De Bianchi ci catapulta in una casa di riposo, per anziani artisti, il Santa Tea, dove il protagonista, il poeta dimenticato dal mondo Leone Caetani, assiste, nelle primissime pagine del romanzo ad un fatto scioccante: un omicidio illuminato dalla Luna, l’omicidio di Federico Brembani. Leone Caetani vede benissimo chi è l’assassino, la domanda è: perché?

Ce lo domandiamo soprattutto perché quello di Federico Brembani non è l’unico omicidio avvenuto nella casa di riposo, ma gli “incidenti” si susseguono l’uno dopo l’altro, fino a domandarsi se per caso non ci sia un angelo della morte, un Caronte venuto per traghettare le anime dalla solitudine e dalla prigione della casa di riposo alla libertà dell’altro mondo. Ma, citando le parole del commissario Guidi: “La libertà non ha un perché: è il perché. Siamo portati a pensare che quando movimenti e pensieri cominciano a perdere i colpi, evaporano i sogni. Invece quella sfera irrazionale esiste in un bambino come in un vegliardo ed è forte l’unica cosa di noi che conta davvero, alla fine.”

 

In un romanzo dal ritmo serrato e sempre più incalzante, Sassoli De Bianchi racconta una realtà che fa male, che dovrebbe far riflettere tutti noi: la triste realtà che troppo spesso affligge gli anziani, gli anziani emarginati che purtroppo sono così presenti ai giorni nostri. Lorenzo Sassoli De Bianchi ci parla, attraverso questo romanzo della loro solitudine e della loro voglia di riscatto, di voler dare ancora qualcosa a questo mondo. Il voler essere ancora utili.

Un romanzo che mira a voler affermare sempre la dignità dell’essere umano e soprattutto la dignità dell’anziano, una dignità che mai è stata persa.

 

 

#LaLunaArgento

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La luna bianca

Il sonno è sempre stato un argomento a me caro.

Sarà che non sono mai stata una dormigliona e che l’insonnia spesso è venuta a bussare alla mia porta, ma tutto ciò che riguarda il dormire mi affascina.

Quanto è importante il sonno e cosa succederebbe se questo ci venisse tolto all’improvviso?

Lorenzo Sassoli De Bianchi ne La luna bianca (@sperlingandkupfer) ci racconta di una città dove il sonno viene rubato e sembra non essere più necessario: un mondo affetto da un’epidemia d’insonnia, la Sindrome della Luna Bianca. Un mondo dove il sonno viene portato via ai protagonisti, in maniera subdola: non appena compaiono i sintomi, non si sente la mancanza del sonno. Anzi, colui che ne viene privato, si sente più forte, più produttivo,  vittima di una lucidità euforica. Del resto, non sarebbe un sogno utilizzare le ore di sonno, per poter essere produttivi? Oppure no, il sonno è sacro e anche potendone privarcene è necessario alla nostra vita?

Ma procediamo con ordine: tutto ha inizio quando Rebecca Berna muore d’insonnia e i suoi nipoti, Corallo e Arturo incontrano la professoressa Luisa Garesi e, temendo di poter ereditare la malattia, mettono i loro cervelli nelle mani della scienza. Ben presto, anche Corallo inizierà a soffrire d’insonnia, utilizzando il tempo che spendeva per dormire per mettere a punto il suo progetto lungo anni: quello di costruire un sottomarino. Non si sente privato o stanco, anzi, si sente invincibile. Non si accorge della gravità della cosa, finché Carolina, l’amata figlia, non lo costringe a farsi visitare.

Da qui, inizia un viaggio attraverso atmosfere mistiche, dove la medicina tradizionale e non si incontrano, dove i personaggi della letteratura entrano in gioco e tornano in vita (come Gabriel Garcia Marquez) cercando di dar risposte e di restituire il sonno. E soprattutto, con una vena di mistico, atmosfere magiche, introdotte in particolare modo dal personaggio di Lor, capace di unire la medicina e magia.


Il tutto condito dalla letteratura che ha un ruolo fondamentale all’interno del libro, dal già citato Gabriel Garcia Marquez a Joyce, fondamentale soprattutto nella vita di uno dei due fratelli, Arturo.
Se poi ci mettiamo anche un lieto fine, dove l’amore trionfa, otteniamo un mix perfetto.

Vi incuriosisce?

E voi, siete dormiglioni o come me conoscete bene la sensazione di star svegli la notte?

#LaLunaBianca

@lalunabianca_official

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Con Donato Carrisi nella Casa delle Voci

Quando ho deciso di aprire questo blog, non pensavo che, grazie a questo piccolo spazio che mi sono creata, avrei avuto la possibilità di fare una chiacchierata con uno degli scrittori più interessati del panorama letterario italiano.
E invece, grazie alla grandissima disponibilità della casa editrice Longanesi, ho avuto la possibilità di conoscere e intervistare Donato Carrisi, che da ormai 10 anni approda nelle librerie italiani con thriller e storie che tengono i lettori incollati alle pagine.

Quest’anno i lettori non hanno dovuto attendere molto per leggere una nuova formidale storia di Donato Carrisi e a Dicembre è arrivato sugli scaffali delle librerie il suo nuovo thriller “La casa delle voci”, ovviamente edito Longanesi Editore, che vede come protagonista uno psicologo infantile, Pietro Gerber e una misteriosa donna arrivata dall’Australia per parlare direttamente con lui di un evento a cui non sembra facile trovare una spiegazione, il tutto sullo sfondo di una suggestiva Firenze.

Un libro con cui Carrisi ha vinto una sfida: quella di scivere un libro che facesse paura, ma senza che ci fosse un omicidio o uno spargimento di sangue.
E, fidatevi di me, il maestro del thriller italiano ci riesce benissimo: mentre leggevo “La casa delle voci”, l’ansia si è insinuata dentro di me e vi posso assicurare che anche il più insignificante scricchiolio in casa, è stato sufficente per farmi scendere un brivido lungo la schiena…proprio a me, che a determinate cose non ci ho mai creduto!

Ma, come vi ho anticipato, ho avuto la fortuna di fare una chiacchierata con lui ed ecco cosa mi ha detto a proposito del suo ultimo libro (e non solo).

Intervista a Donato Carrisi:

La prima domanda è tratta da una frase del tuo libro, una frase che possiamo dire essere il filo conduttore de “La casa delle voci”.  La frase in cui Hanna Hall dichiara a Pietro Gerber che, se venisse domandato a chiunque, se nella vita avesse mai assistito ad un evento soprannaturale, la risposta sarebbe sempre  positiva.
Tu credi che sia realmente così o è una frase frutto della tua fantasia?
Beh, io sono fermamente convinto che a chiunque sia capitato nella vita un evento soprannaturale. Anch’io sono scettico, ma questo non vuol dire che non ci capitino cose a cui non sappiamo dare una spiegazione. È un’ esperienza comune a tante persone e a volte abbiamo bisogno di credere in determinate cose. Io ho notato che le più significative esperienze di questo genere capitano nell’infanzia, come accade ai protagonisti de “La casa delle voci”. Nell’infanzia c’è una sorta di limbo: se eventi insipigabili ci capitano da bambini, crescendo liquidiamo la cosa come una fantasia. E se non fosse così?

Come mai ne “La casa delle voci” hai deciso di parlare di soprannaturale ed eventi ispiegabili?
Nei miei libri c’è sempre un elemento soprannaturale, nel mio primo libro c’era una medium. Io non mi rassegno all’avido realismo, raccontare solo la realtà mi sembra piuttosto limitante.

L’anno scorso è uscito “Il gioco del suggeritore”, il sequel del tuo libro più celebre “Il suggeritore”. Quest’anno invece sei tornato in libreria con un romanzo tutto nuovo. Per te rappresenta una sfida maggiore quella di pubblicare un romanzo con nuovi personaggi e una nuova storia?
Non lo so francamente, il criterio che uso è quello dell’interesse. Quando scrivo mi comporto da lettore, scrivo sempre storie che mi piacerebbe leggere.

I tuoi libri sono sempre molto curati nei dettagli, le ambientazioni sono molto curate; il narratore è come un attento osservatore che descrive tutto ciò che ha intorno. E io mi domando, quanto di te c’è in questo? Cioè, quanto sei osservatore nella vita?
Beh, tutto parte da questo, la ricerca della storia parte dall’osservarsi intorno. Io sono un grande osservatore, se ad esempio entra in una stanza una persona interessante, mi lascio colpire, cerco di immaginarmi la sua storia.

Ora però non posso fare a meno di chiederti un piccolo spoiler, se così si può dire: rivedremo ancora Pietro Gerber in altri libri, come è stato per Mila Vasquez?
Non lo so, se c’è la storia si, ma non decido la storia in base ai personaggi.

Quindi, in base a questo, mi viene spontaneo chuederti: quando hai scritto, ormai 10 anni fa, il suggeritore, non avevi in mente il seguito o le altre avventure di Mila Vasquez?
No, non sapevo neanche che sarebbe stato un libro, ci speravo!

 

Quando nasce una mamma

L’ultimo articolo che ho scritto qui sopra risale al 4 Ottobre del 2018, un anno fa. Esattamente 19 giorni dopo, ho scoperto di essere incinta.

Ho pensato tanto a come raccontare la nostra nascita: la tua, nel senso letterale del termine; la mia, come mamma.

Ho pensato, ripensato, scritto parole e cancellato frasi, perché io sono fatta così: mi esprimo con la scrittura, ma di fronte ad emozioni troppo grandi, le parole le perdo. Tutto sembra troppo piccolo, ogni frase sembra troppo banale per descrivere l’immensità di ciò che sto, che stiamo vivendo. Eppure, ci proverò. Mentre te dormi e io mangio un boccone al volo, cercherò di mettere una frase dietro l’altra per provare a dare un’idea della magia di questi mesi.

Dicevamo, 19 giorni dopo aver scritto l’ultimo post su questo spazio ormai abbandonato a se stesso, ho scoperto della tua esistenza. Sarebbe bello, poetico, dire che io me lo sentivo, che avevo una sensazione strana e tutte quelle cose che mi hanno raccontato le altre mamme che ho incontrato in questo percorso. La verità invece è che io pensavo di avere un problema ormonale, un ritardo dato dall’interruzione della pillola. Tuo padre, lui si che lo sapeva, da giorni, ma non aveva mai detto nulla, sperando che venisse a me l’idea, cercando di rispettare i miei tempi. E invece, il 23 Ottobre 2019 io ho esclamato di voler chiamare il ginecologo, dopo ben 20 giorni di ritardo, per vedere dove stava il problema. Lì, tuo papà mi ha proposto timidamente di fare un test, magari prima di sentire il dottore. Ho acconsentito, raccomandandomi di comprare il più economico per non sprecare i soldi. Perché, ne ero convinta, i figli non arrivano così. Non arrivano subito, senza sforzi e inaspettati. La vita mi aveva già dato troppo regalandomi il tuo papà, non potevo avere una gioia così grande senza un minimo di impegno. Forse non me la meritavo. Ne ero così convinta che quando ho visto quelle due lineette sono stata sotto shock per un po’ e poi ho pensato “adesso spariranno, ne tornerà solo una, è impossibile”. Ne ho fatto un altro, di test, poi le analisi e subito una visita, un’ecografia. Tutto confermava la stessa cosa: Tu esistevi. C’eri. Silenzioso, impercettibile, ma c’eri, in tutti i tuoi 17 millimetri di splendore. E, ancora una volta, potrei dire di aver vissuto giorni magici, felici, in cui mi sentivo diversa. La verità, invece, è che ho vissuto giorni, mesi di terrore. Tu c’eri e io non volevo perderti. Per mesi sei stato il segreto mio, del tuo papà e di quelle pochissime persone vicine al quale l’abbiamo sussurrato sottovoce. Mi sono fatta scudo per te, cercando di proteggerti con ogni fibra del mio corpo, sentendomi frustrata dal senso di impotenza nel sapere che più che rinunciare al mio amato prosciutto crudo e al mio adoratissimo sushi, non potevo fare. Non avevo una nausea, stanchezza, nulla di nulla. E forse avrei tanto voluto qualche sintomo, pur di star tranquilla. Ad ogni visita, un sospiro di sollievo: crescevi e crescevi sano. Ci è stato detto che eri maschietto, ma quello lo sapevo già: è stata l’unica cosa, contro i pronostici di tutti, che ho indovinato, che mi sono sentita fin dal primo instante. Ti a Mai in vita mia mi sono sentita così felice e mai così preoccupata.

 

 

Siamo stati un corpo solo per 37 settimane e 5 giorni. E per ognuno di questi giorni non ho mai dato per scontata la grandezza del condividere il proprio corpo con qualcun altro. Tu crescevi dentro di me, un miracolo al quale ancora oggi fatico a credere;

 

 

Ma, non perdiamoci in chiacchiere visto che sono stata già troppo prolissa: insieme per 37 settimane e 5 giorni. Poi, tramite un processo dolorosissimo (perdonami amore mio, se non ho trovato nulla di magico nel parto. Perdonami, se dico che ne avrei fatto volentieri a meno, di tutto quel dolore. Credimi, se ti dico che per avere di nuovo te, lo rifarei altre mille volte e più se fosse necessario. Perdonami se sono contenta che non ci sia questa necessità), sei venuto al mondo. Ti abbiamo chiamato Davide, significa amato e tu lo sei tanto. Davide, perché è un nome importante, il nome dei re. Davide, come il primo re d’Israele che sconfisse Golia, nonostante la notevole differenza fisica: per dirti che anche tu incontrerai giganti che ti sembreranno insormontabili, giganti carichi di ingiustizia, e per ricordati che questi giganti li puoi sconfiggere, lo dice il tuo nome.

 

Sei nato il primo giorno vero di sole, dopo un mese di pioggia. Il 7 Giugno, insieme a te a Roma è finalmente arrivata l’estate e il sole l’hai portato te. Da una cosa sola, siamo diventati di nuovo due. E questa è stata la parte più difficile: condividerti. Non con il tuo papà, quello no. Il momento più bello della mia vita è stato quando ti ho visto tra le sue braccia. A parte lui però, per un mese intero non volevo che nessuno ti toccasse, che nessuno ti guardasse troppo. Dovevi essere solo mio, ancora per un po’. Mio e del tuo papà. Controllavo che nessuno appoggiasse le mani sul tuo corpicino più del dovuto, che nessuno indugiasse troppo lo sguardo su quel viso perfetto. Piano piano, ho imparato anche a condividerti, a delegare. Proprio questo senso di attaccamento a te, ha fatto si che non mi sentissi mai inadeguata: io che non avevo mai cambiato un pannolino in vita mia, ho iniziato a farlo come se nella mia vita non avessi fatto altro. Ti vestivo velocemente, bene, nessun vestito storto o messo male per l’inesperienza. Nessun baby blues, nessun senso di smarrimento. Mi ha salvato la sicurezza che ho di me, la sicurezza nel sapere che sono la tua mamma e che nessuno sa meglio di me ciò di cui hai bisogno. Sono stata fortunata per questo e perché mai nessuno mi ha messo in secondo piano: il tuo papà, i tuoi nonni, i tuoi zii hanno pensato a me, così come hanno fatto con te. Non che mi sarei sentita in colpa se avessi avuto un po’ di malinconia e tristezza, perché credo che nessuno debba sentirsi in colpa per questo; del resto, mettere al mondo un essere umano è una delle cose più grandi che una donna possa fare, qualora lo desideri e le emozioni possono essere molteplici e ci sta il sentirsi inadeguate, va bene la tristezza. Semplicemente io non ho avuto queste reazioni, sono stata fortunata. Io ero felice, ti guardavo e non mi capacitavo di aver messo al mondo qualcosa di così bello.

 

Non è stato tutto rose e fiori, sia ben chiaro. Nonostante tu sia il bambino più buono del mondo (e non lo dico perché sei mio figlio) ci sono stati momenti tosti. Hai dei ritmi totalmente diversi dai miei e per entrare in simbiosi con le tue necessità ci ho messo un po’. Tante volte avrei voluto un po’ più di tempo per me, tante volte avrei voluto fare una doccia più lunga, vedere una serie tv tranquilla, leggere qualche pagina. Ma te dormivi la notte (e per fortuna), ma di giorno non ne volevi sapere. Ci sono stati giorni in cui ho creduto che la stanchezza fisica mi avrebbe ucciso, lo ammetto. Per non parlare dell’allattamento: per 4 mesi sono stata caparbia, tosta, ho puntato i piedi e ti ho cresciuto solo con il mio latte; poi, ho capito che un biberon dato da una mamma serena è più sano di un latte materno offerto da un fisico che non ce la fa più (e questo, tu l’hai capito prima di me, visto il tuo rifiuto del seno). Piano piano però le cose sono migliorate, io ho imparato a ritagliarmi momenti per me e tu hai preso i tuoi ritmi. E ora, ogni giorno che passa, sento il cuore scoppiarmi, farmi male, da quanto amore ho dentro. Mi hai insegnato tante cose e altrettante me ne hai donate: la pazienza, in primis. Io, che ero la persona più impaziente del mondo, sono diventata una persona che sa aspettare, che sa dare il giusto tempo alle cose. Mi hai donato nuove amiche, mamme con il quale confrontarmi ogni giorno. Mi hai donato un padre eccezionale, il tuo. Mi hai donato amore, lacrime e gioia senza fine. Mi hai donato la forza di ripartire, di non arrendermi, perché sei il motivo che mi fa alzare dal letto felice ogni giorno.

 

La verità è che da quando sei nato io ho smesso di essere Alessia e sono diventata “La mamma di Davide” e ancora non mi sento pronta ad essere altro. Mi dà fastidio non essere me. Io che ho studiato tanto, che ho sempre voluto lavorare, ora mi ritrovo a non saper essere altro che la tua mamma.

Ora, che lavorativamente parlando sto prendendo solo porte in faccia, perché in questo paese per lavorare bisogna essere solo nati con l’esperienza e non aver desiderio di far figli, mi consolo e riparto perché penso che, comunque vada, io sono e sarò per sempre “Alessia, la mamma di Davide”. Non ti vedrò mai come un limite, non a te, che sei la cosa più bella del mondo, il mio portafortuna, il mio cuore.

A te, che sei il mio motore, dedico queste parole.

E le dedico a tutte le mamme come me che hanno preso porte in faccia, che sono state colpevolizzate per essere diventate mamme, che non trovano lavoro, che lavorano e che devono lasciare i bimbi a casa, che a volte si sentono stanche, sconfitte, inadeguate. Siete tutte degli uragani, delle guerriere.

Davide, ti prometto che qualunque cosa accade non smetterò mai di ringraziarti per essere qui con noi, per aver scelti come genitori.

Con tutto l’amore che posso.

Mamma

Sofia si veste sempre di nero – Paolo Cognetti

“Sei la maestra e l’allieva della tua vita. Impari dalla te stessa del passato, insegni alla te stessa del futuro: le persone normali si smarriscono lì dentro, tu ti ci muovi danzando.”

Care/i lettrici e lettori, oggi vorrei salutarvi come mio consono, ma in qualche modo sento che non posso farlo, non posso salutarvi prima di parlarvi di questo libro, che almeno per ora, si piazza primo in classifica dei libri letti nel 2018.

Ho letto “Sofia si veste sempre di nero” al mare, durante le vacanze. Il mare è il mio luogo, l’acqua salata il mio elemento, tra le onde mi sento a casa. Eppure, mentre lo leggevo all’ombra di una palma, mi sentivo in colpa verso questo romanzo, pensavo che gli stavo togliendo qualcosa., riducendolo ad un banale romanzetto da ombrellone. Così ho iniziato a leggerlo al mattino. Ho letto questo romanzo nelle prime ore di calde mattinate di Settembre, di fronte ad un cristallino mare egiziano, quando la spiaggia era tutta per me ed altoparlanti e giochi dormivano ancora. Non potevo leggerlo in un luogo più giusto.

Per prima cosa, vi presento velocemente il libro: una raccolta di 10 racconti, indipendenti tra loro, ma che se messi insieme formano il romanzo meraviglioso che è “Sofia si veste sempre di nero”, di Paolo Cognetti, edito Minimum Fax.
Questa doppia chiava di lettura, è uno dei punti di forza del romanzo e, se non siete amanti dei racconti o non vi siete mai approcciati a questo genere letterario, il fatto che questi racconti siano indipendenti e allo stesso tempo concatenati tra di loro, può sicuramente aiutare.

All’inizio del post ho scritto che in questo caso non mi sembrava giusto salutarvi. Questo perché alla ragazza che si veste sempre di nero, Sofia Muratore, i saluti non piacciono. Non saluta mai, soprattutto quando se va, perché se non tollera gli addii e anche gli arrivederci non è che le piacciano tanto. Se qualcuno dice addio o anche semplicemente arrivederci è perché quel qualcuno se ne sta andando e lei questo non lo sopporta, teme di essere abbandonata.
A Sofia piacciono i cani, le scialuppe e le navi pirata. E il teatro, soprattutto il teatro; ma va bene anche la macchina da presa. Qualunque cosa purché si reciti, purché per qualche ora si diventi qualcun altro.
Sofia vive negli anni ’80 e ’90, dove c’è una generazione che corre, che non lotta più per gli ideali, non sciopera più, non combatte più. Una generazione che pensa solo a scappare il più velocemente possibile, senza lasciar traccia.
In questo mi sono sentita molto vicina a Sofia, anche la mia generazione è così. Anche noi non combattiamo, anche noi scappiamo e siamo rassegnati. Noi non viviamo negli anni ’70, gli anni dei disordini e degli scioperi, gli anni passati alla storia come “gli anni di piombo”. Anni che Paolo Cognetti racconta in maniera sublime attraverso i personaggi di Roberto Muratore e di sua sorella Marta, rispettivamente il papà e la zia di Sofia. E lo fa con i racconti “Disegnata dal vento” e “Sofia si veste sempre di nero”, il racconto che dona il titolo all’intera opera.
Il signor Muratore è un ingegnere dell’Alfa Romeo, in un’epoca di scontri e  scioperi, un’epoca in cui il mondo e il modo di vedere il mondo sta cambiando, anche e soprattutto a causa della tecnologia che prepotente inizia ad entrare nel quotidiano.
La zia Marta invece contro il sistema si scagliava in prima persona e quando tutti pensavano di poter fare una rivoluzione, lei provava a farla davvero, giusto o sbagliato che fosse. Un’anarchica, un fuoco acceso e una ribelle, tutto questo è Marta, che vede cadere uno ad uno i suoi compagni e che fugge in Francia, per non fare la stessa fine.
In questi due racconti Cognetti ci restituisce un ritratto lucido di una manciata di anni fondamentale per il nostro paese, uno sguardo al passato che ho apprezzato particolarmente.

Tornando a Sofia Muratore, con lei ho avuto un rapporto conflittuale: se da una parte avrei voluto averla davanti a me per abbracciarla forte, dall’altra avrei voluto prenderla a schiaffi. Avrei voluto consolarla, dirle che nessun ha intenzione di abbandonarla, che non è sola; ma avrei anche voluto dirle di fare un piccolo sforzo, di cambiare atteggiamento, di non stare sempre sulla difensiva e di fare un piccolo passo verso gli altri. Non sono le tue azioni, ma le tue reazioni a definire chi sei.”, questo dice Sofia. E io avrei voluto gridarle di cambiarle queste reazioni. Che si, sua mamma è depressa e forse non era stata la migliore al mondo, ma di provare a farlo un piccolo passo verso di lei,  perché lei, mamma Rossana, è lì ad attenderla. Di tornare dalla zia, di chiederle aiuto, perché non è troppo grande per farlo. 

Io lo so, che se avessi avuto Sofia davanti  a me in carne ed ossa tutte queste cose gliele avrei gridate, ma so anche che poi l’avrei abbracciata. Lo so, perché in fondo ognuna/o di noi è Sofia Muratore, solo che noi riusciamo a nasconderlo meglio e magari siamo anche più forti. Ma la paura di essere abbandonati/i ce l’abbiamo tutte/i. La paura di quell’addio, si insinua facilmente dentro di noi, ma spesso si riesce a lasciarla lì in un angolo, la si nasconde e la si lascia lì, anche se sappiamo che è ben presente.
Ed è per questo che, al termine del libro cara Sofia, io ti stringo forte.

Leggete, leggete tutte/i questi racconti, questo romanzo e lasciatevi incantare dalla scrittura e dai personaggi di Paolo Cognetti.

Io non vi saluto oggi, ma vi do’ appuntamento al prossimo post.

Alessia

 

Sconti Fazi Editore: i miei consigli

Salve a tutti lettrici e lettori, bentornati su Books for Breakfast!

E’ trascorso un po’ di tempo dall’ultima volta che vi ho salutati da questa piattaforma, da questo spazio a cui non riesco a dare le giuste attenzioni. Ho promesso però di tornare a scrivere, di tornare a curare questo spazio, perché scrivere per me è una necessità, un bisogno. Stavolta però il ritorno al blog è diverso, è un ritorno vero, non vi libererete di me tanto facilmente. Torno con una nuova veste grafica, non perfetta, ma che mi piace decisamente di più e tante idee in testa. Questa premessa perciò è per dirvi che tornerò a rompervi anche qui sul blog!

Bene, passiamo subito però all’argomento di oggi, ovvero “Come diventare poveri”.  Su Instagram (mi seguite su Instagram? Se no, perché ancora non lo fate? Mi trovate come @unlibroacolazione) vi ho chiesto quale articolo preferivate per la “riapertura” del blog e ha stravinto quello su cosa prendere con gli sconti Fazi Editore. Eh già mie/miei care e cari, le case editrici ci stanno tentando con sconti su sconti e chi siamo noi per resistere? perciò ho deciso di dirvi quali sono secondo me i libri di questa casa editrice che proprio non potete lasciarvi sfuggire, a maggior ragione se in sconto.

  • Stoner – John Williams.

Stoner è il capolavoro di John Williams. L’autore infatti riesce nell’impresa titanica di raccontare la vita di un professore, nella quale non accade nulla di rilevante, e ne fa un capolavoro. Niente esperimenti linguistici particolari, linguaggio artificioso e termini arcaici, ma una scrittura semplice e pulita. Nessun evento straordinario ci tiene incollati alle pagine. La bellezza di questo romanzo sta tutta nella sublime penna di John Williams, che ci fa affezionare a questo professore, quest’uomo che decide di fare della letteratura la sua vita. Stoner è uno di noi, né più, né meno. Il lettore si affeziona a questo professore, perché in lui rivede sé stesso. Rivede la vita a volte monotona, normale che ognuno di noi vive. Una vita che, nella sua normalità diventa straordinaria. Una vita non perfetta, con un matrimonio decisamente non felice, una vita in cui Stoner inciampa parecchie volte. Come inciampa ognuno di noi, nella sua normale, ma proprio per questo straordinaria, vita.

  • Yeruldegger, Morte nella Steppa – Ian Manook

Della collana DarkSide della Fazi, si chiacchiera poco (o, almeno, io ne sento parlare poco), ed è un peccato secondo me, perché al suo interno troviamo dei titoli decisamente interessanti, tra cui la trilogia di Yeruldegger, dello scrittore Ian Manook, che spopola in Francia. Lo sapete, io non sono quella che si può definire un’amante dei thriller, ma amo molto le saghe giallo/poliziesche, dove c’è un’eccellente caratterizzazione dei personaggi e dove non si indaga sul caso fine a sé stesso, ma ci si concentra sul protagonista della saga. Da Poirot a Maigret, da Montalbano a Schiavone, fino al commissario Lojacono, ho sempre avuto un debole per questi ispettori/vicequestori/commissari dalla personalità complessa e il commissario dal nome impronunciabile non ha fatto eccezione. Infatti, Manook svolge un’eccellente lavoro di caratterizzazione dei personaggi, primo fa tutti proprio Yeruldegger: un uomo distrutto dalla vita, che gli ha tolto tutto ciò che aveva di più caro al mondo. Un uomo che nonostante tutto questo dolore non abbandona la sua morale, la sua etica e continua a portare rispetto verso una società che l’ha tradito e distrutto.
Altro punto di forza è senza dubbio l’ambientazione. L’intera saga è infatti ambientata in Mongolia, trascina il lettore in questa terra lontana e sconosciuta e gli fa fare un tuffo nelle sue tradizioni. Una terra esotica, misteriosa che questo libro ha il grande pregio di farci conoscere.

Tuttavia, ci tengo a dire che non è un libro privo di difetti. Personalmente l’ho trovato troppo violento e crudo, quando secondo me non era necessario. Alcune pagine sono molto cariche di violenza, una violenza che a mio parere ha fatto si che il libro perdesse molto perché, ripeto, il libro non ne ha bisogno. Ma è un mio parere, magari a voi questa cosa non da’ fastidio e sono semplicemente “esagerata” io.
Qualora decideste di dargli una possibilità, mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

  • Olive Kitteridge – Elizabeth Strout

Su Olive Kitteridge, c’è un post proprio su questo blog, l’ultimo che ho scritto. Lì ve ne parlo più approfonditamente, in questo articolo vorrei evitare di ripetermi.
I motivi per cui secondo me vale la pena di leggere Olive Kitteridge, li trovate nella recensione a lui dedicata (che trovate qui (https://booksforbreakfast.altervista.org/booktubeitalialeggeindipendente-olive-kitteridge/), ma riassumendoli brevemente sono: la scrittura magistrale di Elizabeth Strout (e l’ottima traduzione di Silvia Castoldi). La scoperta del personaggio di Olive Kitteridge, un’ improbabile eroina, che no, non vi piacerà, ma con cui alla fine farete pace. Ultimo e fondamentale punto, la potenza di questo libro . Una potenza a cui non si può opporre resistenza, ma a cui ci si abbandona e ci si lascia trasportare.

  • I Cazalet – Elizabeth Jane Howard

Ecco, l’ultimo consiglio mi ero ripromessa che non l’avrei dato, perché è scontato, perché tutti noi conosciamo i Cazalet e la bellezza di questa saga, perché ne parlano tutti e blablabla. Attualmente però in lettura ho il secondo volume della saga, che sto amando più di quanto abbia amato il primo volume. Una lettura così intensa e ipnotica che non si può non consigliare, a che se lo si fa per milionesima volta. Ogni volta che apro le pagine del libro, mi catapulto ad Home Place e dal divano di casa mia mi ritrovo nella campagna inglese a giocare con i bambini, a conversare con gli adulti, a prendere a sberle Edward e soprattutto a chiacchierare con le ragazze, Louise, Polly e Clary, le mie preferite. Il secondo volume si concentra maggiormente su queste tre figure e ciò mi rende davvero felice. Trovo che nella caratterizzazione di queste tre ragazze la Howard dia il meglio di sé.
Detto ciò, se siete tra i pochi che ancora non hanno letto i Cazalet..fatelo, correte in libreria, comprate il secondo volume della saga e leggetelo, tipo ora.

 

Bene, care e cari coraggiose/i che siete arrivate/i fino alla fine di questo lungo post, questi erano i miei consigli.
Ora tocca a voi: fatemi sapere quali sono i libri di questa casa editrice che non possono perdermi e anche se avete acquistato dei libri approfittando degli sconti.

Io vi mando un abbraccio e ci vediamo al prossimo post che, statene certi, arriverà a breve!


Alessia

#Booktubeitalialeggeindipendente: Olive Kitteridge

 

Salve  a tutti lettori e lettrici e bentornati (o benvenuti) su Books for breakfast!
Sono passati ormai due mesi dall’ultima volta che ho acceso il pc per scrivere su questo piccolo spazio che ho creato con tanto entusiasmo, ma che purtroppo trascuro. Ahimè, la mancanza di tempo fa sì che quest’angolo libresco venga accantonato, anche se mi manca scrivere e raccontarvi le mie letture. Ed è proprio per questo che in un caldo pomeriggio di fine Giugno mi ritrovo qui, davanti al pc e sommersa dai libri, per parlavi di un bellissimo progetto che mi ha fatto rispolverare un libro che prendeva polvere tra gli scaffali della mia libreria e che fortunatamente, vista la sua bellezza, ho letto in questo Giugno ballerino e capriccioso.

Il progetto in questione è la #booktubeitalialeggeindipendente, creato da Eleonora (che trovate su Youtube e su Instagram come misstortellino) , che permette di far scoprire case editrici indipendenti, magari meno conosciute nel panorama letterario. Ogni mese viene estratta una casa editrice indipendente e chi vuol aderire al progetto sceglie di leggere un libro presente nel catalogo di questa casa editrice.

E’ la prima volta che partecipo a quest’iniziativa, ma sicuramente sarà la prima di una lunga serie. Questo perché trovo un’idea brillante quella di dar rilievo ad alcune case editrici sconosciute ai più e che magari vengono oscurate dai colossi editoriali nelle librerie, ma che hanno all’interno del loro catalogo dei piccoli capolavori.

Bene, ora che vi ho introdotto un po’ il progetto, direi che posso passare a parlarvi della lettura di questo mese (e sarebbe pure ora, lo so). La casa editrice estratta per il mese di Giugno è stata la Fazi Editore e io ho scelto di leggere Olive Kitteridge di Elizabeth Strout.

Olive Kitteridge è un libro che definirei potente. Di una potenza che spiazza, che colpisce e alla quale non si può opporre resistenza, ma ci si deve solo arrendere e lasciarsi trasportare. Talmente potente che, nonostante gli impegni, mi ha trascinato su una sedia, davanti ad un computer a scrivere come un fiume in piena su di lui. E’ un libro potente perché riesce a colpire il lettore pur raccontando vicende quasi normali, che possono accadere a chiunque nella vita di tutti i giorni; forse è proprio per questo che è un libro doloroso: perché quel che accade alla protagonista e ai personaggi che gli ruotano intorno ci è vicino, è molto facile entrare in empatia con i personaggi. Il lettore sa che quel che accade a lei, a loro, può benissimo accadere anche a lui. Questo è quello che personalmente trovo il punto di forza del libro.

Ma procediamo con ordine.
Olive Kitteridge è una raccolta di racconti, ambientati nei paesini dei Maine (anche l’ambientazione è un punto di forza: ricorda i paesini italiani, in qualche modo perciò i luoghi del libro ci sono familiari) che hanno come filo conduttore la presenza di Olive Kitterige: che sia la protagonista o che venga soltanto nominata, è presente in ogni racconto. Grazie a questi racconti si riescono a toccare diversi temi,anche molto delicati, come la solitudine, l’omicidio, la malattia, la depressione, la sensibilità, la famiglia, il suicidio e la follia umana.

Vi dico subito che a me il personaggio di Olive inizialmente non è piaciuto: è una donna che viene descritta come sgraziata, rude, antipatica; insomma non è la classica eroina dei romanzi, anzi io la definirei un’anti-eroina. Olive rappresenta l’incapacità di essere felice. Proprio per questo, alla fine del romanzo, quando in qualche modo spezzerà questa solitudine e farà entrare un po’ di luce nella sua vita, io mi ci sono riappacificata. L’ho compresa e perdonata per i suoi atteggiamenti troppo severi, specialmente con sé stessa, per la sua incapacità di amare e per la durezza ne confronti del figlio e del marito, Henry.
Una menzione speciale va proprio a lui, ad Henry, il mio personaggio preferito: un uomo buono, gentile, amato da tutti, ma che non ha occhi che per la scontrosa Olive, che ama e alla quale sarà sempre fedele, anche quando questa fedeltà gli costerà cara mantenerla.

Henry è uno dei motivi per il quale leggere questo libro. Altri motivi?
Senza dubbio la scrittura della Strout: questo è stato il mio primo incontro con l’autrice, ma sono sicura che leggerò altri suoi romanzi. Elizabeth Strout scrive divinamente, il libro scorre che è una bellezza e il suo stile è limpido, chiaro, senza troppi “fronzoli”. Creare un personaggio come Olive non è affatto facile, ma la Strout ci riesce in maniera egregia. Il personaggi di Olive è reale, vivo, in grado di lasciare un’impronta indelebile nell’animo del lettore.
Il motivo principale però per cui vi consento di leggere questo romanzo però è sua forza, la sua capacità di indagare nell’animo umano e di farci capire che anche quando sembra che nulla stia accadendo in realtà la vita non si ferma mai, non va mai in pausa. E’ un fluire costante, inarrestabile. E noi non possiamo far altro che arrenderci ad essa.

Voto: 4.5/5

Allora, vi ho convinto a leggerlo?

Vi saluto lettori e lettrici, ci vediamo presto. Stavolta davvero.

Alessia

Piccoli suicidi tra amici e il potere della comicità

“In questa vita la cosa più seria è la morte, ma neanche quella più di tanto”

Salve a tutti lettori e lettrici e benvenuti (o bentornati) su Books for Breakfast!
Dalla mia esperienza di lettrice, ho imparato una cosa: a volte non siamo noi a scegliere i libri, ma sono loro che scelgono noi. So che può sembrare che abbia appena scritto qualcosa di folle , ma nell’arco della mia vita mi è capitato (neanche troppo raramente) e mi capita tuttora di leggere alcuni libri che sembrano essere stati scritti appositamente per il periodo che sto vivendo e che in qualche modo mi vengono in aiuto. E mi piace pensare che non sono io che ho preso quel libro dagli scaffali della libreria, ma che questo mi abbia in qualche modo chiamato, in qualche modo mi abbia spinto a prendere proprio lui e non un altro volume. Sembro impazzita, me ne rendo conto, ma essere un po’ dei sognatori non è ciò che accomuna tutti noi lettori? E poi, se c’è una cosa di cui sono fermamente convinta è che i libri salvano, sempre. Basta trovare quello giusto, quello adatto al determinato momento che si sta vivendo. Questo è quello che mi è successo con “Piccoli suicidi tra amici”, di Arto Paasilinna, edito Iperborea. Tra l’altro, questo è stato il mio primo Iperborea (per chi non conoscesse Iperborea, anche se penso che la conosciate tutti, è una casa editrice indipendente che ha come linea editoriale quella di tradurre e pubblicare scrittori del nord europa) e, se già prima avevo parecchi loro libri in wishlist, adesso sono certa di voler recuperare tutte le opere che hanno tradotto e pubblicato. E poi, ma quanto è bella la loro linea grafica? (si, sono una vittima del fascino dell’estetica del libro, lo ammetto!). Prima di parlare del libro, è necessario fare una premessa: io non amo i libri comici. So che questo mi può far sembrare una persona triste, ma come non amo le serie tv comedy, non amo i libri che utilizzano prevalentemente un linguaggio comico e grottesco. Eppure, nonostante ciò, “Piccoli suicidi tra amici” mi è piaciuto tantissimo e credo che questo sia dovuto anche al fatto che, come ho già detto, in queste ultime settimane è stato il libro perfetto per me. Questo perché il libro di Paasilinna ci regala un messaggio importantissimo: quello che non bisogna mai arrendersi alle difficoltà che la vita inevitabilmente ci pone davanti, ma che in qualche modo si può sempre reagire e uno dei modi per superare le difficoltà è quello di non rinchiudersi in sé stessi, ma di cercare e affrontare il problema insieme a qualcuno perché, se si crea una squadra si può superare tutto. Ed è proprio ciò che fanno i protagonisti di “Piccoli suicidi tra amici”. Paasilinna ci racconta storie di personaggi che si ritrovano ad affrontare difficoltà enormi, problemi che sembrano essere insormontabili, a partire dal colonello Kemppainen che perde la sua amata moglie a causa di un tumore, passando per la vicepresidente Puusaari che ha una brutta reputazione a causa di cattive voci sul suo conto che la stanno distruggendo, fino al direttore Rellonen che ha fallito ben tre volte nel tentativo di aprirsi una sua società e vive con una moglie che non riesce a stargli vicino e gli è totalmente indifferente. E insieme a loro, un mucchio di altre persone afflitte da problemi gravissimi, come una grave malattia, il fallimento e la perdita della famiglia. Persone che decidono di farla finita, ma che tuttavia non ci riescono. Una storia tragica, penserete. E invece no, perché Arto Paasilinna ha il grande dono di saper raccontare tutto, anche la storia più struggente in una chiave ironica e vi ritroverete a ridere della disgrazie dei Morituri Anonimi. E questa è una capacità enorme: saper ridere dei problemi, saper ironizzare anche sulle più grandi difficoltà della vita, non significa sminuire la criticità del momento, ma significa saperlo in qualche modo affrontare e non lasciarsi mai abbattere dalle avversità, qualunque esse siano. E Paasilinna ha la grande bravura di farci sorridere dei guai (si, sto citando Vasco), senza essere mai banale o immorale e senza mai sminuire la gravità delle situazioni. E fidatevi, che ad avere questo dono sono in pochi. Se c’è una cosa che mi ha insegnato questo libro è che non bisogna mai abbattersi, che mollare tutto non è mai la giusta soluzione e che alla fine una via d’uscita c’è sempre. Per questo vi consiglio questo libro se vi sentite giù, se la vita vi ha appena messo davanti ad una prova difficile.
Un libro brillante, che ci aiuta a prendere la vita con più leggerezza. Bello, davvero bello.

E voi, avete letto qualcosa edito Iperborea? C’è qualche libro presente nel loro catalogo che volete consigliarmi?

Buone letture a tutti/e ci si rivede presto qui, su BfB.


Alessia

L’Avversario di Emmanuel Carrère: quando la realtà supera la fantastia

 

Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intellegibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario.

 

Salve a tutti lettori e lettrici e ben tornati (o benvenuti) su Books for Breakfast!
Perdonate l’assenza di ben una settimana, ma son stati giorni impegnativi e BfB ne ha un po’ risentito, ma oggi sono tornata per parlarvi di un libro che personalmente ho trovato un capolavoro , ma che mi ha anche profondamente scosso: “L’Avversario” di Emmanuel Carrère.

Scrivere questa recensione non è facile, devo ammetterlo, quando ho provato a buttare giù qualcosa poco dopo ho lasciato perdere.
Lo stesso Carrère più volte ha raccontato come per lui sia stato difficile scrivere la storia di Jean- Claude Romand e di come inizialmente abbia cercato di raccontarla in maniera distaccata, finendo per fare tutt’altro, dal momento che “L’Avversario” è scritto interamente in prima persona. E anche per noi lettori, la difficoltà è proprio questa: per quanto si possano prendere le distanze da questa storia agghiacciante, è impossibile farlo. Questo perché la vicenda di Jean- Claude Romand è vera, ma così assurda da superare la più macabra fantasia. L’assassino di Francia, come viene chiamato Romand dai giornalisti, ha ucciso moglie, figli e genitori e poi ha tentato di suicidarsi, fallendo nel tentativo di togliersi la vita. Tali atrocità sono state commesse per un motivo: nascondere la sua vera identità. Per 20 anni infatti Jean – Claude Romand ha finto di essere un medico dell’OMS, quando in realtà non aveva nemmeno mai conseguito la laurea in medicina. Ed è su quest’ultimo punto che si concentra l’opera di Carrère. Lo scrittore, più che concentrarsi sui terribili omicidi, si concentra su come sia stato possibile che Romand abbia mentito a tutti per venti lunghi anni e che mai nessuno se ne sia accorto, neanche le persone a lui più vicine. E sulla menzogna si basa tutto il libro.

“Come è possibile che un uomo possa mentire su se stesso e sulla propria identità così a lungo senza essere mai scoperto? senza che mai nessuno sospetti di niente?”

Senza dubbio questo è l’interrogativo che ci si pone mentre si scopre la storia di Romand, ma si va oltre queste domande. La vera forza del libro è infatti l’universalità, se cosi si può definire, che Carrère dà alla vicenda. Leggendo “L’Avversario”, per quanto la storia appaia paradossale ai nostri occhi, non si ha mai l’impressione di leggere qualcosa di lontano da noi. E improvvisamente ci si domanda non più come sia possibile mentire su stessi senza che nessuno se ne accorga, ma ci si rende conto che non è poi così improbabile e che spesso si pensa di conoscere una persona, ma in realtà non si sa nulla di lei. Ed è questo l’elemento che fa più paura.

E ancora, ci si domanda fino a che punto si possa mentire, senza essere risucchiati da quella menzogna. Qual è la linea sottile che separa la verità dalla bugia? E mentendo per così tanto tempo, si scavalca quella linea, finendo per credere alla stessa menzogna? Fino a che punto si riescono a separare le due cose? Romand, fino a che punto mente? Veramente è un assassino pentito, oppure sta mentendo ancora una volta circa la sua identità?
Il cervello continua ad arrovellarsi attorno a queste domande anche una volta terminato il libro. Sono interrogativi che ci poniamo noi mentre leggiamo “L’Avversario”  e che si pone Carrère nel corso della ricostruzione della vicenda. Domande che non trovano risposta e intrappolano il lettore.

E senza dubbio oltre a questo c’è un altro grandissimo elemento che fa si che questo libro risulti un vero gioiello: la bravura stilisitica di Carrère.
Tutta la vicenda è raccontata con uno stile a dir poco magistrale. Carrére “fa cronaca” in una maniera eccellente, arrivando a creare un esercizio di stile superlativo.

Insomma, leggere l’Avversario non è semplice, ma è una lettura che non potete lasciarvi sfuggire, soprattutto se amate il genere “true crime”, stile Truman Capote.
Per me, un capolavoro.

Voto: 5/5

Alla prossima lettori e lettrici, fatemi sapere se avete letto “L’Avversario” e che cosa ne pensate, o semplicemente se vi incuriosisce, con un commento qui sotto, se vi va.
Buone letture a tutti!


Alessia 

Serie tv mania: le mie 5 serie tv preferite del catalogo Netflix!

Salve a tutti lettori e lettrici e ben tornati (o benvenuti) su Books for Breakfast!

Il post di oggi sarà un po’ diverso dal solito: non parleremo infatti di libri, bensì di un’altra delle ossessioni della sottoscritta, le serie tv.
Come vi avevo già anticipato nell’articolo di presentazione, io sono una grandissima amante del mondo delle serie tv, da sempre. Non so se tra voi lettori del blog c’è qualcuno della mia generazione, ma se siete nati nei primi anni ’90 sicuramente ricorderete la famiglia Camden di Settimo Cieloil potere del trio coincide col mio di Streghe (io ero assolutamente team Pheobe) e, andando un po’ avanti con gli anni, i canestri dei fratelli Scott di One Tree Hill.
Nonostante perciò la programmazione televisiva fino ai primi anni 2000 ha spesso messo i bastoni tra le ruote a noi piccoli “serie tv addicted”, io non mi sono mai lasciata scoraggiare e, armata del mio fedele video registratore e vhs, sono riuscita senza problemi a seguire diverse serie senza perdere nessuna puntata.

 

Ormai, con l’avvento delle nuove piattaforme streaming, è diventato più facile seguire le nostre serie tv preferite, avendo la comodità di poter vedere le puntate come e quando si vuole. Tra le varie piattaforme che ormai chiunque produca serie tv propone, la mia preferita è senza dubbio Netflix.
Se già prima guardavo molte serie tv, con l’arrivo di Netflix in Italia, la mia lista è notevolmente aumentata. Trovo infatti che Netflix offra, oltre ad un ampio catalogo in grado di accontentare tutti i gusti, anche delle produzioni che personalmente trovo molto valide.
Tra tutte le serie presenti sul catalogo Netflix ho selezionato le cinque che preferisco e che secondo me non potete proprio lasciarvi sfuggire.
Piccola premessa: non sono assolutamente una persona competente del settore cinematografico e simili, perciò non parlerò in termini tecnici, ma semplicemente seguendo quello che è il mio gusto personale.

 

  1. La Casa di Carta
    Sul podio delle mie serie tv Netflix preferite, non poteva che esserci La Casa de Papel, tradotto in italiano come La casa di Carta.
    Possiamo definirlo una novità Netflix, visto che è nel catalogo relativamente da poco e ho iniziato a vederlo dopo aver sentito pareri entusiasti e positivi. Avevo altissime aspettative, che non sono state deluse. Trovo che La casa di Carta, sia davvero un gioiellino a partire dalla trama, che personalmente trovo geniale: un gruppo di pregiudicati viene radunato da un uomo molto colto ed intelligente, che si fa chiamare “il professore” e insieme organizzano il colpo del secolo: entrare nella zecca di stato e rinchiudersi per 11 giorni al suo interno stampando soldi. Ogni puntata, oltre a portare avanti il filo conduttore che è la rapina, si  focalizza sulle storie dei rapinatori, facendoceli conoscere e soprattutto facendoci affezionare a loro. Sfido chiunque infatti a patteggiare per gli ostaggi: vi ritroverete a sperare che i rapinatori ce la facciano, che riescano nel loro colpo o quanto meno che ne escano illesi.
    Una serie tv avvincente, dalla quale puntata dopo puntata non riuscirete più a staccarvi. Se avete Netflix, mettetela in lista.
    Ed il 6 Aprile usciranno finalmente gli ultimi due episodi!
  2. Dark

    Qui il rischio di Binge – Watching è alto, ma veramente alto.
    Serie tv tedesca prodotta da Netflix, ha un pilot che già cattura lo spettatore fin dal primo momento: nella fin troppo tranquilla Winden, scopare improvvisamente il liceale Erik. Ma come ben presto si saprà, non è la prima volta che strane sparizioni accadono a  Winden. Era successo tempo prima. E il tempo è l’elemento principale di Dark. La storia infatti si sviluppa in tre archi temporali differenti: nel presente ci troviamo nel 2019, ma ci ritroveremo a viaggiare a ritroso di 33 anni, arrivando nel 1986 e poi ancora di altri 33 anni, fino al 1956. Guardando Dark ci si trova catapultati in un loop temporale, che vi terrà incollati alla tv, cercando risposte ai numerosi quesiti che la visione di questa serie pone a chiunque si appresti a guardarla. Dubbi che non saranno risolti e proprio per questo sto aspettando con impazienza la seconda stagione, che è già stata confermata.
    Perciò, se avete del tempo libero, approfittate di queste giornate di pioggia che sembrano non finire mai, armatevi di una bella tazza di tè e dei vostri biscotti preferiti e preparatevi ad entrare in un tunnel temporale dal quale sarà davvero difficile uscire!
    E no, non ha nulla a che vedere con Stranger Things, nonostante i due show siano stati spesso paragonati tra loro. Ma fidatevi no, non c’ha proprio niente a che vedere.
  3. Stranger Things

    Lo so, lo so. L’ennesimo post in cui si parla di Stranger Things. Perdonatemi se in questo caso ripeto ciò di cui tantissimi altri blog avranno già parlato, ma non potevo esimermi dal citare anche Stranger Things in quest’elenco.
    Sono una fan sfegata di questa serie tv e già sto attendendo con ansia la terza stagione. Anche qui, la scomparsa di un bambino porta alla luce misteri che vedono protagoniste spaventose forze innaturali ma, come ho scritto sopra, questa serie tv non ha nulla a che vedere con Dark.
    Perciò se avete visto una delle due, non temete di vedere l’altra per paura di vedere qualcosa di simile, perché sono due prodotti totalmente differenti tra loro.
    Di Stranger Things ho amato tutti i piccoli protagonisti e soprattutto il modo in cui viene raccontata la loro amicizia, il loro sacrificarsi fino ai limiti del possibile l’uno per l’altro. E ho anche amato profondamente l’ironia che contraddistingue questa serie.
    Potrei dire di aver amato anche i frequenti richiami agli anni ’80 ma, nonostante io li abbia senza dubbio apprezzati, non sono figlia di questa generazione e non ho mai visto i Goonies, perciò non ho avuto quell’effetto nostalgia che in molti hanno provato guardando questa serie.
    So che ormai l’avranno vista quasi tutti, ma in caso qualcuno non l’avesse fatto, corra a vederla, ORA!
  4. RevengeStavolta non parliamo di una serie ufficiale Netflix, ma la potete trovare all’interno del suo catalogo. Come dice il titolo Revenge, parla di vendetta, di un passato che non si riesce a sotterrare e di una ragazza che ha sacrificato tutta la sua vita per avere la sua vendetta. Una serie veramente avvincente per tre stagioni, nella quarta e ultima stagione devo ammettere che peggiora. Tuttavia, nonostante la quarta stagione non sia assolutamente all’altezza delle prime tre (nonostante il mio parere), non posso non consigliarvela, soprattutto se amate gli intrighi familiari.
  5. The Crown 

    Sono stata veramente indecisa se inserire nella classifica anche questa serie. La mia indecisione deriva dal fatto che in realtà io stia ancora vedendo la quindi puntata della seconda stagione, perciò andando avanti con gli episodi potrebbe deludermi e io potrei cambiare idea. Ma alla fine non potevo non inserire The Crown, una serie Netflix che trovo veramente ben realizzata.
    The Crown narra la storia della regina Elisabetta II e del suo regno.
    Da sempre subisco il fascino della monarchia, mi piace particolarmente questo tipo di tematica e soprattutto di ambientazione, perciò sto apprezzando veramente tanto queste serie.
    Claire Foy nei panni della regina Elisabetta è perfetta e vi è una somiglianza impressionante tra lei e la vera Elisabetta II.
    Se vi piace la storia ed in particolare quest’aspetto della storia inglese, dovete assolutamente vederla.

Queste sono le mie cinque serie tv preferite presenti su Netflix, anche se in realtà avrei potuto citarne molte altre (tra cui DareDevil, Jessica Jones e The Good Wife) e non è stato affatto facile selezionarne solo cinque.
Voi avete visto qualcuna tra le serie citate?
C’è qualche serie che non ho menzionato che volete consigliarmi?
Se vi va, lasciatemi un commento con i vostri consigli!
Se volete a questo proposito mi trovate anche su Tv Show Times come Ale1991.
Noi ci vediamo al prossimo articolo e nel frattempo…buona maratona di serie tv a tutti!


Alessia

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